Recensione di ‘Wildcat’, Ethan Hawke Costruisce un Biopic Immaginativo ma Incompleto su Flannery O’Connor

Scritto da Marcello Romano, 17 Settembre 2023 - Tempo di lettura: 5 minuti

L’autrice americana Flannery O’Connor incontra difficoltà nel trovare un editore per il suo primo libro, nonostante il suo evidente talento

La vera scena d’apertura del film (in formato widescreen 2.35:1 e colori freddi e smorzati) assume la forma di un piano sequenza a mano libera, in cui si vede un presunto criminale che tiene in ostaggio un personaggio puntandogli una pistola. Ben presto diventa evidente che si tratta di un frutto della fervida immaginazione creativa di O’Connor, poiché lei stessa si interroga sul dialogo del criminale, e la scena si ripete e si prolunga oltre il suo punto di svolgimento naturale.

Maya Hawke interpreta una poco convincente Flannery O’Connor in un dramma ovvio e malriuscito che cerca di prendere grandi iniziative creative, ma per lo più manca l’obiettivo.

La pistola spara e, come reazione alla sua stessa creazione, la vera O’Connor getta la testa in avanti verso la sua macchina da scrivere, manifestando una frustrazione delusa. La prima volta che la vediamo – con i denti storti, sguardi imbarazzati da dietro spessi occhiali e una determinazione punteggiata da dubbi – fatica a pronunciare una frase senza mettere in discussione i suoi impulsi creativi.

Questa è la base da cui Hawke inizia a raccontare la storia di O’Connor, una storia in cui l’oscurità, l’osceno e il macabro si scontrano frontalmente con il suo cattolicesimo e le aspettative della sua famiglia per una giovane donna del Sud proveniente dalla società bene educata. Gran parte della trama si svolge nella sua città natale, Milledgeville, in Georgia, dove le viene diagnosticato il lupus, la stessa malattia che ha portato via la vita di suo padre, e dove lotta di più con la sua identità e le sue posizioni politiche, date le evidenti divergenze tra i suoi istinti artistici e la cultura localmente conservatrice. “Wildcat” Recensione: Ethan Hawke costruisce un biopic suggestivo ma incompleto su Flannery O’Connor. TIFF: L’attore-regista sceglie sua figlia per un ruolo encomiabile che finisce per essere penalizzato dalla sua stessa regia.

Wildcat” di Ethan Hawke ha un’affascinante fissazione per il processo artistico. L’attore-regista sceglie sua figlia, Maya Hawke, nel ruolo dell’autrice del Southern Gothic Flannery O’Connor, in un altro film sulla vita di un vero artista – “Blaze” parlava di un musicista country; “Seymour: An Introduction” seguiva un pianista classico – con una struttura narrativa non convenzionale e affascinante. Tuttavia, nonostante Maya Hawke si getti a capofitto nel ruolo, gli sforzi di suo padre per catturare la mente, il corpo e l’anima di O’Connor finiscono per sembrare incompleti.

La scena d’apertura assume la forma di un vecchio trailer cinematografico in bianco e nero, con un rapporto d’aspetto 4:3 – appropriato per l’ambientazione degli anni ’50 di “Wildcat” – per un thriller sensazionalista su una giovane ribelle (interpretata da Maya Hawke) che scandalizza sua madre cattolica conservatrice (Laura Linney). Esiste completamente a parte dalla trama del film, ma sembra informare la dichiarazione di missione registica di Hawke, poiché cerca di tradurre una storia di processo letterario e contraddizione spirituale in linguaggio cinematografico. La drammatizzazione di queste conundrum da parte di Ethan Hawke è non convenzionale. Non si presentano sotto forma di conversazioni, ma di brevi vignette cinematografiche immaginarie: brevi frammenti di storie immaginate da O’Connor e influenzate da dettagli e persone che vede intorno a lei nel mondo reale. Si immagina lei stessa e sua madre nei ruoli chiave in quasi ogni storia – Maya Hawke e Linney appaiono in ognuno di questi racconti – un tocco di casting ripetitivo che crea una rappresentazione distintamente cinematografica dell’auto-proiezione letteraria. Il modo in cui il regista Hawke gira queste scene (con una telecamera fluttuante e svincolata, rispetto all’immobilità con cui filma la realtà), le dota di un senso di imprevedibilità, poiché si dirigono verso rivelazioni sempre più assurde su ogni personaggio, accompagnate dalla voce narrante poetica di O’Connor.

In un momento, “Wildcat” diventa essenzialmente un adattamento di “Il ritorno di Parker,” un racconto breve di O’Connor in cui desiderio e fede cristiana si scontrano in modi familiari alla vita della scrittrice. Tuttavia, questa riflessione ha un limite, ripristinando i parametri di un dilemma spirituale che raramente assume nuove forme o presenta nuove sfide man mano che il film prosegue. La sottotrama romantica di O’Connor, con il professore universitario Cal Lowell (Philip Ettinger), appare altrettanto soffocata, come un semplice elemento da spuntare per delineare i confini delle sue convinzioni sulla castità prima del matrimonio, ma senza svolgere un ruolo centrale nell’agonia emotiva a cui il film allude frequentemente.

Questa agonia raggiunge l’apice in una scena di confessione da letto profondamente sentita (e dolorosamente incarnata), in cui la performance appassionata di Maya Hawke nel ruolo dell’autrice in conflitto è commovente. Tuttavia, la telecamera di Ethan Hawke involontariamente attenua l’impatto di questa e di altre scene a cui sua figlia si dedica appieno. I suoi primi piani sono montati, innanzitutto, per la loro funzione e il loro dialogo, piuttosto che per quello che potrebbero rivelare attraverso il silenzio, e quando la questione della mortalità inizia a incombe su O’Connor, introduce un tocco così splendidamente concepito che rompe accidentalmente il film. A metà strada, presenta spazi familiari al pubblico (e alcuni sconosciuti, come i cimiteri), ma li definisce attraverso l’assenza fisica di O’Connor, usando spazi vuoti dove dovrebbe trovarsi una persona.

È un esempio commovente del pensiero genuino che mette come regista (e come co-sceneggiatore con Shelby Gaines) su come esprimere senza parole lo spettro ineffabile della morte. Tuttavia, anziché seguire questa trama emotivamente efficace, sceglie questo momento, di tutti i momenti, per fare un salto temporale e introdurre una struttura narrativa sottosopra, ritraendo un periodo in cui la presenza fisica di O’Connor non è in contrasto con questa vuotezza, e non torna mai completamente a questa dicotomia cinematografica.

È un’idea audace che sembra sprecata, e quando O’Connor è finalmente in grado di affrontare una sorta di riconciliazione spirituale, è una che non assume né una forma diretta né obliqua: è presentata né nei termini drammatici letterali della narrazione lineare di O’Connor, né nella sua visione immaginativa, ma piuttosto sotto forma di implicazione scontata, poiché il film finisce praticamente in medias res proprio quando inizia a diventare interessante.

Date le acrobazie formali presenti in questo finale, non è difficile individuare le sue ispirazioni cinematografiche: i film di Paul Schrader, con cui Hawke ha collaborato su “First Reformed“. Ma dove gli accenni di splendore culminante di Schrader sono basati sul tormento spirituale, le rappresentazioni di Ethan Hawke dello stesso non raggiungono mai veramente il loro apice emotivo. “Wildcat” è troppo timido nella sua rappresentazione della sofferenza per permettere ai suoi sottofondi cattolici di emergere o di assumere una forma cinematografica potente, risultando in un’opera in cui le contraddizioni sono dilemmi a metà cuocere che sembrano risolversi troppo comodamente, e la vita stessa è qualcosa che accade lontano dallo schermo.

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